LE 6 PRIORITA’ DEL NUOVO MINISTRO PER LA TRANSIZIONE ECOLOGICA
Roberto Cingolani, nominato Ministro per la Transizione ecologica (MITE) nel nuovo governo guidato da Mario Draghi, sospende la sua collaborazione con la rubrica “Green&Blue” di Repubblica.it e saluta i lettori con una lettera aperta, unitamente ad alcuni articoli che aveva scritto e che erano in attesa di pubblicazione, e che il neo Ministro ha voluto comunque consegnare alla testata.
Questo il testo della lettera:
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L’INTELLIGENZA GLOBALE CI SALVERA’
La nascita della tecnologia, intesa come l’applicazione di soluzioni pratiche atte alla risoluzione di un problema, può essere datata in maniera arbitraria. Circa due milioni di anni fa, i primi ominidi cominciavano la scheggiatura e la lavorazione della pietra per produrre armi e utensili rudimentali. Lungo tutta l’Età della Pietra, lo sviluppo umano resta però quasi del tutto stazionario. Bisogna attendere il 16.000 avanti Cristo per vedere i primi esempi di manifattura in terracotta. Da quel momento in poi, lo sviluppo tecnologico non si è più arrestato, avanzando prima lentamente e poi sempre più velocemente, fino a conoscere una vera e propria esplosione negli ultimi secoli.
Il ritmo del progresso non è uniforme: dalle prime lavorazioni della terracotta, si sono dovuti attendere circa ottomila anni per arrivare a modificare i materiali naturali, sintetizzando nuovi costrutti e leghe metalliche; è quella che oggi chiamiamo scienza dei materiali. La medicina e lo studio del corpo umano cominciano a svilupparsi solamente nel 5.000 avanti Cristo, con le prime forme di ortodonzia rudimentale e le trapanazioni craniche. La matematica, l’astronomia e la geografia sono successive: a mano a mano che le civiltà di Sapiens diventano sempre più complesse, intorno al 3.000 avanti Cristo, l’aritmetica diventa fondamentale per il governo della società, mentre l’osservazione delle stelle e mappe più dettagliate aiutano ad alimentare i crescenti traffici commerciali, offrendo una guida a navi e carovane.
Questo tasso di innovazione tecnologica non è certo strabiliante: dalla prima comparsa dell’Homo Sapiens, più di duecentomila anni fa, alla metà del secondo millennio dopo Cristo, le innovazioni che hanno cambiato il corso della storia – quelle che abbiamo chiamato game changer – si contano sulla punta delle dita.
Ma poco meno di seicento anni fa qualcosa cambia. Con il Rinascimento, e poi con l’Illuminismo, le nuove scoperte scientifiche si fanno sempre più ravvicinate, alimentando un ritmo di sviluppo tecnologico che ci proietta verso la rivoluzione industriale del XIX secolo e si fa esponenziale. Nello spazio degli ultimi cento anni, si sono succedute l’era atomica e quella digitale, dove si concentrano più invenzioni disruptive che in tutti i millenni precedenti. Per riprendere la nostra metafora, se equiparassimo la vita sulla Terra alla durata di un giorno, l’uomo sarebbe apparso negli ultimi dieci minuti, e il suo sviluppo tecnologico sarebbe questione degli ultimi millisecondi in cui, però, è riuscito a modificare in maniera irreversibile il proprio ecosistema.
Siamo abituati a pensare al progresso come a qualcosa di costante e lineare. Lo sviluppo tecnologico di Sapiens è invece un evento recente e dirompente. Ma come spiegare questa vera e propria esplosione di conoscenza? Per capire le ragioni dell’accelerazione dello sviluppo tecnologico, dobbiamo guardare alla demografia: per svariati millenni, la popolazione di Sapiens è rimasta stazionaria intorno al miliardo di individui, caratterizzata da alti tassi di natalità ma anche da alti tassi di mortalità. A partire dalla tarda età moderna, gli avanzamenti della medicina hanno raddoppiato l’aspettativa di vita media e ridotto sensibilmente la mortalità infantile. Il risultato è evidenziato da una singolarità demografica: negli ultimi duecento anni la popolazione mondiale è cresciuta di otto volte, più che nei duecentomila anni precedenti.
Con il crescere del numero dei Sapiens, sono cresciuti i problemi, ma anche la capacità di trovare delle soluzioni. Aumentando il numero di teste pensanti, sono aumentati anche i prodotti dell’innovazione. Esiste, in altre parole, una correlazione tra intelligenza globale e sviluppo tecnologico: il cervello umano è una macchina strabiliante, che può compiere fino a cento milioni di miliardi di operazioni logiche al secondo; più o meno come un supercomputer all’exaflop. Anche considerando che non tutti gli esseri umani partecipano al moto del progresso, la possibilità di moltiplicare la capacità computazionale umana per un numero crescente di individui ha incrementato l’inventiva collettiva e il tasso di sviluppo tecnologico.
Per rendere possibile questo feedback positivo tra progresso e crescita demografica è stato però necessario trovare anche nuovi modi per distribuire le informazioni ad una crescente platea di individui. A questo bisogno ha risposto l’invenzione della stampa a caratteri mobili, alla metà del XV secolo, proprio all’inizio dello spike tecnologico. L’invenzione di Johannes Gutenberg ha democratizzato l’accesso alla conoscenza, consentendo l’alfabetizzazione di massa e rendendo la tecnologia più facilmente trasmissibile rispetto al passato. Da subito, il libro a stampa ha garantito riproducibilità e verificabilità delle informazioni su larga scala, un requisito essenziale per lo sviluppo del moderno metodo scientifico, che per i copiatori amanuensi sarebbe stato impossibile.
Oggi, la nova della tecnologia continua la sua espansione ad un ritmo sempre più serrato: la nascita di Internet e la rivoluzione digitale hanno accelerato ulteriormente la circolazione della conoscenza, con il rischio di un overload informativo. Lo sviluppo della cibernetica e di supercomputer sempre più performanti raddoppia la capacità computazionale dell’intelligenza globale di Sapiens: alla biologia del cervello umano si sommano oggi i circuiti in silicio dell’intelligenza artificiale. Il ritmo del progresso, insomma, continuerà a crescere. La vera domanda è se sapremo stare al passo con questi sviluppi: diventa sempre più difficile, per la società, metabolizzare gli shock di un futuro che incalza, mentre la stabilità del nostro ecosistema è compromessa dalle risorse sempre più ingenti richieste dallo sviluppo. Di questo passo, tra poco più di cento anni, Sapiens potrebbe arrivare ai pianeti esterni, oltre il Sistema Solare. Speriamo solo di non aver esaurito il nostro prima.
VALUTARE IN ANTICIPO GLI EFFETTI COLLATERALI DELL’INNOVAZIONE
Tutti gli organismi della Terra, in un modo o nell’altro, evolvono. Charles Darwin ce lo ha spiegato più di centosessant’anni fa ne l’origine della specie. Solamente uno di loro, però, progredisce: Homo Sapiens. Con la possibilità di tramandare e accumulare conoscenze di generazione in generazione, l’uomo ha intrapreso un percorso di sviluppo tecnologico autosostenuto, che lo ha portato ad alterare in maniera radicale il suo ecosistema.
Anche altri esseri viventi modificano il proprio ambiente circostante, dalla formica al castoro. Nessuno di loro, però, opera sulla stessa scala, con la stessa rapidità e sistematicità di Sapiens. Il suo progresso è stato esplosivo: nei due secoli successivi alla rivoluzione industriale, la popolazione umana è cresciuta a dismisura, mentre lo sviluppo dell’industria ha portato allo sfruttamento di una quantità ingente di risorse naturali. Espandendosi e consumando, come una specie parassita, Sapiens è arrivato a colonizzare gli angoli più remoti del pianeta. Il suo stesso successo ha però generato tre debiti del progresso*, che pesano oggi sulle future prospettive di sopravvivenza di Sapiens, e rischiano di schiacciarlo.
Il primo è il debito demografico. Nell’antichità, la crescita della popolazione umana era costantemente tenuta sotto controllo da periodiche epidemie e carestie. Negli ultimi secoli, abbiamo incrementato enormemente la nostra aspettativa di vita media e ridotto drasticamente la mortalità infantile. Questo ha però dato origine a un paradosso: nella società dell’affluenza, più si innalza l’età media, più aumentano i costi che devono sostenere i sistemi pensionistici e sanitari. Il tutto, in un contesto in cui l’automazione della produzione sta riducendo le possibilità di lavoro mentre emerge l’incapacità di trovare una soluzione socialmente condivisa su come redistribuire i benefici del progresso tecnologico. L’allungamento della vita, in sostanza, è diventato una fonte di instabilità economica.
Il secondo debito è quello ambientale. Lo sviluppo dell’industria e la creazione di reti di trasporto sempre più estese e capillari hanno aumentato la potenza produttiva di Sapiens, ma hanno anche portato ad un’estrazione di risorse senza precedenti, con scarsa attenzione ai limiti fisici del nostro pianeta. L’overshoot day indica il giorno di ogni anno in cui l’umanità consuma le risorse prodotte dal pianeta per quell’anno. Da quando questa misura è stata introdotta per la prima volta nel 1971, la data di overshoot si è progressivamente allontanata dalla fine dell’anno. Solamente nel 2020, complice la pandemia, il giorno in cui abbiamo cominciato a sovra-sfruttare la Terra è caduto il 22 agosto, posticipato di quasi tre settimane rispetto all’anno precedente. Stiamo accumulando un debito di risorse con il nostro pianeta.
Esiste poi una terza tipologia di debito, di cui cominciamo ad accorgerci solo ora: quello cognitivo. Con lo sviluppo dei mass media, a partire dal secolo scorso, la quantità di informazioni a disposizione di Sapiens è andata crescendo. L’avvento di Internet e la rivoluzione digitale hanno però portato ad una vera e propria esplosione dell’infosfera. Oggi Sapiens comunica molto più rapidamente, ma è esposto anche ad un flusso tale di dati che è diventato incapace di metabolizzarli. Riceviamo centinaia di mail al giorno e i social network ci propongono continuamente nuovi, ma effimeri, contenuti. Se l’informazione fosse luce, oggi ne saremmo completamente abbagliati; il suo eccesso sta generando danni permanenti all’ecologia della nostra mente.
I tre debiti che abbiamo elencato sono un riflesso del costo del progresso di Sapiens e rischiano di pregiudicarne la sopravvivenza. Che cosa possiamo fare per mitigare i loro effetti e ridurne la portata? Ogni tipo di tecnologia rappresenta la risposta pratica ad un problema. A volte, tuttavia, i suoi costi sul lungo periodo non vengono valutati. Una misura semplicista come il prodotto interno lordo, ad esempio, non incorpora il costo dei danni indiretti che possono essere causati dalla crescita industriale o dalle nuove tecnologie digitali. Quello di cui abbiamo bisogno oggi è un risk assessment ragionato del progresso, a livello politico e aziendale, che tenga conto dei problemi di lungo periodo generati dallo sviluppo, e sappia valutare attentamente il rapporto tra costi e opportunità di ogni tecnologia. Incorporando fin da subito i costi del progresso nei nostri calcoli, saremo capaci di una pianificazione più efficace e sostenibile.
Le automobili elettriche sono un caso da manuale: quando lo scorso dicembre il CEO di Toyota, Akira Toyoda, ha affermato che le auto elettriche presentano costi sociali e ambientali ancora insostenibili, molti si sono stracciati le vesti, soprattutto tra chi fa una moda dell’essere green. A ben vedere, però, il capo di Toyota ha fatto solo presente che anche una buona tecnologia come l’auto elettrica vada usata con intelligenza. Il litio e il cobalto, materiali necessari per la produzione delle batterie, sono difficili da trovare e da smaltire: se anche volessimo sostituire l’intero parco veicoli globale immediatamente, le riserve di questi due metalli oggi non basterebbero a soddisfare la domanda, cosi come non basterebbe l’intera produzione elettrica oggi disponibile per garantire le ricariche. Quindi anche questa tecnologia verde necessita di tempo per essere metabolizzata e sviluppata appropriatamente, anche dal punto di vista infrastrutturale.
Per scrollarsi di dosso il peso dei tre debiti, Sapiens deve ripartire da una metodologia di risk assessment che valuti il costo degli effetti collaterali dell’innovazione. Tanto la politica, quanto l’ingegneria, devono capire che ogni sviluppo tecnologico comporta sempre delle conseguenze, dal punto di vista economico-sociale e ambientale. Invece di inseguire modelli di business spregiudicati e plasmati dalle esigenze di un marketing di corto respiro, dobbiamo lavorare sulla nostra capacità di prevenzione, introducendo una visione di sostenibilità di lungo periodo.
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ENERGIA: URGENTE LA TRANSIZIONE VERSO LE RINNOVABILI
Fin dalla scoperta del fuoco, il motore del progresso di Sapiens è stata la sua capacità di trovare fonti di energia sempre più potenti ed efficienti. A partire dalla rivoluzione industriale, questa fame di energia ha portato alla scoperta e allo sfruttamento di nuove fonti nascoste nel sottosuolo: i combustibili fossili. Carbone, petrolio e gas hanno impresso un’accelerazione senza precedenti allo sviluppo tecnologico e alla forza produttiva di Sapiens, ma sono stati pagati a caro prezzo. Il loro sfruttamento da parte dell’uomo ha indotto tre importanti effetti negativi, intrecciati tra loro: ha accentuato le disparità di accesso all’energia, aumentando le disuguaglianze; ha incrementato l’emissione di gas serra nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale, e, di conseguenza, ha causato un peggioramento della qualità dell’aria, con conseguenze epidemiologiche.
Negli ultimi decenni, il fabbisogno globale di energia da parte di Sapiens è cresciuto in maniera esponenziale, fino a superare, l’anno scorso, i 160.000 TeraWattora. La stragrande maggioranza di questa energia – circa l’84% – viene ancora oggi prodotta da combustili fossili mentre le energie rinnovabili rappresentano solamente l’11% e il nucleare il 4%. Nel corso del tempo, l’utilizzo di fonti energetiche a basse emissioni di carbonio è aumentato: nel 1965, la componente rinnovabile dell’energia costituiva solo il 6% dei consumi complessivi, oggi il suo valore è quasi raddoppiato. Questi progressi, tuttavia, non sono stati sufficientemente rapidi da controbilanciare la voracità di energia di Sapiens, che, nello stesso arco di tempo, si è quadruplicata, aumentando la sua dipendenza dai combustibili fossili. Se guardiamo alla domanda globale di energia, questa è alimentata oggi nella misura del 30% dal petrolio mentre il consumo di carbone, pur in diminuzione, ne rappresenta ancora il 25% e il gas naturale – in termini relativi, il meno inquinante dei combustibili fossili – contribuisce nella misura del 22%.
Alcuni progressi sulla strada della decarbonizzazione sono stati fatti nell’ambito dell’energia elettrica: oggi il 36% dell’elettricità mondiale viene prodotta da fonti di energia a basse emissioni di carbonio, come l’eolico, il solare, e, soprattutto, l’idroelettrico e il nucleare, questi ultimi responsabili, rispettivamente, del 15% e del 10% della produzione elettrica globale. L’elettricità, tuttavia, non rappresenta che una frazione del fabbisogno energetico globale, che continua a essere in gran parte soddisfatto dai combustibili fossili, soprattutto nel settore dei trasporti e degli impianti di riscaldamento. Le fonti energetiche a basse emissioni di carbonio rappresentano più di un terzo dell’elettricità globale, ma meno della metà di quella cifra in termini di energia complessiva.
Questa dipendenza di Sapiens dai combustibili fossili porta ogni anno all’emissione di quasi 40 miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera, che, insieme al metano e all’ossido di diazoto, rappresentano i cosiddetti gas serra, che intrappolano il calore all’interno del nostro pianeta e guidano il processo di cambiamento climatico.
Il modello economico di Sapiens è energivoro e le disparità di accesso all’energia sono uno dei principali fattori della crescita della disuguaglianza tra nazioni, prima di tutto, perché non tutti i paesi riescono a lavorare su fonti di energia rinnovabili. Per sviluppare energia a basse emissioni di carbonio, infatti, sono necessari investimenti infrastrutturali e competenze disponibili solamente nei paesi avanzati. In Francia, ad esempio, la presenza di numerose centrali nucleari ha consentito di ridurre l’utilizzo di idrocarburi per consumi energetici a circa il 50%; le democrazie scandinave hanno puntato molto sulla sostenibilità e l’economia circolare: quasi il 70% del loro fabbisogno energetico è soddisfatto da fonti rinnovabili. Alcuni paesi, come il Canada, in virtù della loro fortunata collocazione geografica, possono trarre vantaggio da ingenti risorse idriche per la produzione di energia. Le maggiori potenze manifatturiere, come ad esempio la Cina, continuano però a dipendere pesantemente da combustibili fossili. Nel continente Asiatico, che già oggi rappresenta la metà del prodotto interno lordo globale, la percentuale di energia derivata da fonti rinnovabili si attesta in media al di sotto del 20%.
Le disuguaglianze energetiche non si riducono, però, ad un problema di natura solamente tecnologica. Il 13% della popolazione mondiale, pari a 940 milioni di persone, non ha accesso all’elettricità, soprattutto nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale; Il 40%, circa 3 miliardi di persone, non riesce a ottenere combustibile pulito per cucinare e riscaldare i propri ambienti casalinghi. Per produrre energia, in ogni sua forma, sono infatti necessarie grandi disponibilità di acqua dolce, che è a sua volta connessa con una maggiore efficienza agricola. Nei paesi dotati di scarse risorse idriche, non solo è più difficile produrre energia, ma si instaura anche una competizione tecnica per l’utilizzo delle poche materie prime disponibili, finendo per comprimere lo sviluppo economico. Sempre più spesso, le disparità di accesso all’energia diventano quindi fattori importanti dell’indice di sviluppo umano e dell’aspettativa di vita.
In sostanza, al mondo c’è chi ha molta energia e chi ne ha poca, e anche tra chi ne ha tanta, solo alcuni possono permettersi di produrla in maniera pulita. Per capire in maniera più immediata l’impatto delle disuguaglianze energetiche è sufficiente osservare una ricostruzione satellitare della Terra di notte: la densità ottica della luce emanata di notte da Stati Uniti, Europa e Giappone è incomparabilmente superiore a quella di qualsiasi altra area del pianeta, compresa quella di paesi emergenti come Cina e India. Su base annua, ogni cittadino americano consuma poco più di 12 megawattora (MWh); un europeo o un giapponese circa 6 MWh, e un cinese solamente 4,5 MWh. Ovvio che questo faccia una grande differenza nell’organizzazione della produzione industriale e nella costruzione di infrastrutture.
Il problema della disuguaglianza energetica è strettamente connesso a quello del riscaldamento globale, che approfondiremo in un articolo successivo: I paesi avanzati responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni di anidride carbonica si contano sulle dita di una mano. Solamente negli Stati Uniti, lo scorso anno, sono state emesse 16 tonnellate di CO2 per cittadino. Gli effetti dell’aumento delle temperature, causate dalla crescente concentrazione di gas serra, si ripercuotono però anche nelle zone più povere del pianeta. Viviamo tutti sotto uno stesso cielo: il riscaldamento climatico è causa di siccità, con un impatto enorme sulla fauna e l’agricoltura; lo scioglimento dei ghiacciai diminuisce le risorse di acqua dolce mentre l’innalzamento del livello dei mari porta all’erosione delle coste. I continui scambi di calore tra una terra surriscaldata e la stratosfera, più fredda, generano eventi metereologici estremi, come tifoni e nevicate improvvise, che devastano i territori. Se si eccettuano i terremoti, dal 1980 ad oggi il numero di eventi naturali catastrofici è aumentato in maniera costante di anno in anno; ciò ha causato la perdita di 400.000 vite umane e la spesa di più di un trilione di dollari, pari all’1,6% del PIL mondiale. Ma a differenza delle nazioni ricche, i paesi sottosviluppati non hanno a disposizione le risorse finanziarie e organizzative per arginare i danni causati da questi disastri naturali, finendo per pagare il conto più salato.
E mentre la terra si riscalda, peggiora anche la qualità dell’aria che respiriamo, con un impatto sulla salute di Sapiens e sul suo ecosistema. L’emissione di particolati carboniosi (Black Carbon), idrofluorocarburi e metano, inquina l’atmosfera e provoca il rilascio di sostanze tossiche, con gravi conseguenze sociali ed epidemiologiche. Ogni anno, l’inquinamento dell’aria causa tra i sei e i sette milioni di decessi nel mondo: poco più della metà di queste morti, tra i 2,4 e i 3,8 milioni, si concentra nelle zone sottosviluppate del pianeta ed è dovuta all’inquinamento degli ambienti casalinghi, dove la penuria di carburanti puliti costringe l’uomo a utilizzare materiali nocivi per cucinare e riscaldarsi. Le altre vittime, invece, sono il frutto di inquinamento atmosferico esterno, dovuto, tra le altre cause, all’uso di fertilizzanti chimici e ai problemi connessi all’urbanizzazione massiccia, inclusi il traffico, la carente gestione dei rifiuti e la concentrazione produttiva. Secondo le Nazioni Unite, la perdita di benessere globale dovuta all’inquinamento dell’aria ammonta a 5.100 miliardi di dollari, pari a circa il 6,6% del Pil mondiale.
Negli ultimi decenni, il modello energetico di Sapiens, che è stato la forza propulsiva del suo sviluppo, è diventato una fonte di insostenibilità ambientale e sociale, scavando un solco di disuguaglianza tra le nazioni, portando al riscaldamento del pianeta e all’inquinamento della sua atmosfera. La finestra di opportunità per intervenire si sta riducendo: per riavvolgere il nastro è necessario cominciare già oggi una transizione energetica verso fonti rinnovabili. Più aspetteremo, maggiore sarà il colpo di frusta della frenata.
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UN NUOVO MODELLO PER LE CITTA’
Negli ultimi decenni, il modello di sviluppo di Sapiens ha generato il paradosso del progresso che genera regresso. Questo è il risultato delle complesse correlazioni fra produzione di ricchezza (il PIL), industrializzazione, urbanizzazione, crescita demografica, disuguaglianze e sostenibilità globale. Per capire a fondo questi temi sarebbe necessario leggere i corposi rapporti del Global Environment Outlook pubblicati ogni due anni dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), ma se ne può tentare una sintesi in queste pagine.
Nel 2050, la popolazione mondiale raggiungerà circa 9,7 miliardi di individui, dai 6,6 miliardi del 2010: una crescita enorme, che sarà concentrata nelle regioni più povere del mondo. Queste aree del pianeta sono anche quelle che mostrano un più basso carbon footprint procapite, cioè il minor numero di tonnellate di CO2 prodotte per individuo, per via del sottosviluppo e della scarsa industrializzazione di molte aree dell’Africa Sub-Sahariana e del Sud dell’Asia: dove si produce di meno si inquina di meno. Ma proprio lo scarso progresso coincide con i trend demografici esplosivi. Il sottosviluppo, infatti, si accompagna a forti disuguaglianze di genere in termini di accesso all’educazione e alle opportunità di lavoro per le donne e all’assoluta mancanza di politiche nazionali di contraccezione. I dati dell’ultimo decennio mostrano infatti che nei paesi dove meno del 20% di donne hanno accesso alla scuola secondaria, la fertilità media è di 5 nascite per donna, mentre essa scende a 1,5 nascite per donna quando l’accesso alla scuola supera il 90%. Nei paesi avanzati si assiste invece ad una stagnazione della crescita demografica e all’aumento della percentuale di anziani, in seguito agli avanzamenti della medicina e delle politiche di welfare.
Entrambi questi fenomeni aumentano la pressione di Sapiens sulle risorse del pianeta, minando un equilibrio già compromesso con l’ecosistema. La crescita parallela delle fasce non produttive della società – i piccoli e gli anziani – assorbe, infatti, una quantità crescente di risorse, attraverso l’espansione delle politiche sociali e la diffusione di tecnologie della cura, che hanno un forte impatto ambientale.
Un secondo elemento di allarme è quello dell’urbanizzazione: a livello globale c’è una crescente concentrazione di persone in grandi complessi urbani. Nel 2010, circa 3,6 miliardi gli individui (poco più della metà della popolazione globale), vivevano in città. Nel 2050 si prevede che il numero di persone che vivrà in aree urbane raggiungerà i 6,7 miliardi, pari a circa il 66% della popolazione mondiale. Le Megalopoli con più di 10 milioni di abitanti erano 10 nel 1990 e includevano il 7% della popolazione urbana mondiale (153 milioni). Nel 2014 sono diventate 28 (12% della popolazione urbana mondiale pari a 453 milioni di persone). Nel 2016 sono diventate 31, prevalentemente in Cina e India.
L’urbanizzazione, di per sé, rappresenta un’opportunità: le città attraggono talenti e investimenti, la concentrazione di persone favorisce una diffusione più rapida delle conoscenze e un tasso di innovazione più elevato, mentre stimola lo sviluppo delle infrastrutture. Gli stessi costumi culturali sono influenzati dalla vita in città, a cui è associato un tasso di fertilità più basso. Ma l’urbanizzazione presenta anche un conto negativo: nella calca cittadina crescono la congestione e l’inquinamento, dovuti allo smog e alla produzione di rifiuti. La concentrazione di Sapiens porta ad un aumento dei costi sociali: la casa e i servizi essenziali diventano più cari, mentre aumentano il crimine e le situazioni di disagio. Di fatto in assenza di pianificazione e regole la crescita urbana diventa causa di molteplici vulnerabilità. Questo è proprio quello che sta avvenendo oggi: le città del mondo stanno crescendo in maniera disordinata. Nell’occidente avanzato, caratterizzato già da alti tassi di urbanizzazione, la crescita degli agglomerati urbani è graduale e diffusa e si comincia a parlare di “smart city” , città digitali e intelligenti che riducono l’impatto ambientale e migliorano la qualità della vita. Nelle zone a basso sviluppo le megalopoli stanno invece crescendo rapidamente e senza strumenti di pianificazione urbana per la domanda energetica, le infrastrutture fisiche, la produzione di gas serra, i trasporti, l’ utilizzo delle risorse idriche, la gestione dei rifiuti.
Oggi per esempio la produzione di rifiuti urbani supera i 10 miliardi di tonnellate all’anno con un mercato che eccede i 500 miliardi di US$. Cio’ nonostante oltre tre miliardi di Sapiens non hanno accesso a programmi di raccolta dei rifiuti. Oggi nei paesi a bassi sviluppo ci sono oltre 64 milioni di persone che vivono in prossimità delle 50 più grandi discariche del mondo dove vengono bruciati rifiuti di tutti i tipi, generando enormi quantità di gas serra, micro particolato (PM10, PM2,5) e di microinquinanti organici. 42 di queste discariche si trovano a meno di 2 kilometri dagli insediamenti urbani!
Negli ultimi quarant’anni, le aree urbanizzate sono cresciute di due volte mezzo, raggiungendo gli 800.000 km² totali mentre, nello stesso periodo, la popolazione globale è cresciuta “solamente” di 1,8 volte. In altre parole, gli insediamenti urbani sono cresciuti in maniera superlineare rispetto al trend demografico, divorando spazio e risorse in maniera incontrollata. In nessun luogo del pianeta questa tendenza è stata così accentuata che in Asia dove, dal 1975 ad oggi, la popolazione è duplicata mentre lo spazio antropizzato è più che triplicato. Non solo: mentre in Europa e in Nord America l’urbanizzazione si è accompagnata alla stagnazione demografica (di fatto sono aumentati i metri quadri a persona disponibili), in alcuni paesi asiatici, come Cina e India, si è assistito ad una crescita improvvisa della densità abitativa per effetto del boom demografico. Nel Sud-Est asiatico, infatti, a fronte di un tasso di urbanizzazione del 22%, la popolazione è cresciuta del 31%, concentrandosi in ciclopici agglomerati urbani, a danno della sostenibilità delle città.
L’urbanizzazione sregolata non è solo un volano negativo del cambiamento climatico, ma anche un elemento chiave della crescita delle disuguaglianze. Sempre più, il disegno delle infrastrutture cittadine e le differenze socio-spaziali rappresentano un fattore critico per la salute individuale e il benessere sociale delle popolazioni. Le città costituiscono delle grandi concentrazioni di ricchezza, ma portano anche allo spopolamento e al depauperamento delle aree limitrofe, con l’abbandono delle campagne e delle zone montane. Già oggi, 54% della popolazione globale vive in agglomerati urbani produce oltre 80% del PIL globale. Questo si traduce in una estrema disomogeneità della ricchezza, in quanto 600 grandi città del mondo producono il 62% del PIL mondiale. Alle disuguaglianze territoriali si sommano, poi, crescenti divari sociali all’interno degli stessi centri urbani. L’urbanizzazione disordinata che caratterizza i paesi a più basso indice di sviluppo è contraddistinto spesso dalla crescita di shanty towns e zone di marginalità sociale. Secondo le Nazioni Unite, nel 2050, tra i due e i tre miliardi di persone saranno abitanti informali delle città, con scarso accesso a servizi essenziali.
Come si vede, la crescita delle città pone una serie di sfide che sono di natura ambientale e sociale, e rappresentano allo stesso tempo una causa e una conseguenza degli squilibri del nostro ecosistema. L’urbanizzazione può agire da stimolo di ricchezza e conoscenza, attraverso un modello di sviluppo che, sul lungo periodo, garantisce un impatto minore sul pianeta. Ma se viene gestito in maniera troppo rapida e sregolata, rappresenta un catalizzatore del degrado ambientale. In questo, il fenomeno dell’urbanizzazione è altamente esemplificativo dei paradossi del progresso di Sapiens. Ogni avanzamento della tecnologia è sempre determinato dalla risposta a problemi di natura concreta, ma a lungo andare può generarne di nuovi. Inevitabilmente, il progresso è un pendolo in costante oscillazione tra benefici e costi della tecnologia. Arrivati a questo punto, è però lecito chiedersi- come fanno le Nazioni Unite – se stiamo facendo un buon lavoro.
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EFFETTO SERRA: APPLICARE SUBITO GLI ACCORDI DI PARIGI
Come abbiamo spiegato nel precedente articolo, il modello energetico di Sapiens ha, tra i suoi effetti macroscopici, quello di produrre grandi quantità di anidride carbonica. La CO2, insieme ad altri gas inquinanti, rappresenta il principale motore del cambiamento climatico. La storia della Terra è sempre stata un susseguirsi ciclico di ere glaciali e fasi di riscaldamento. Ciò a cui oggi diamo il nome di “riscaldamento globale” è, però, un fenomeno ben preciso, che denota l’aumento medio delle temperature verificatosi a partire dal tardo diciannovesimo secolo; e a differenza dei precedenti mutamenti climatici, le cause del surriscaldamento odierno sono di natura antropogenica.
La crescita di Sapiens, basata sull’industrializzazione e l’urbanizzazione, ha infatti portato ad un aumento esponenziale della popolazione e ad un crescente consumo di energia, per la maggior parte di natura fossile. In parallelo, l’occupazione di spazi sempre più ampi da parte delle attività umane ha sottratto spazio alla vegetazione. Il combinato disposto dello sviluppo economico e della deforestazione ha portato ad un aumento nell’atmosfera dei composti del carbonio e degli ossidi dell’azoto.
Questo ha due effetti: da un lato, i gas serra intrappolano l’energia termica all’interno dell’atmosfera e ne causano il surriscaldamento; come se il pianeta fosse avvolto in una spessa pellicola di cellophane. Dall’altro lato, i vapori inquinanti dei tubi di scarico e degli impianti di refrigeramento rilasciano le cosiddette Ozone Depleting Substances, che causano l’assottigliamento dell’ozono nella stratosfera, scavando un buco nello scudo che ci protegge dalle radiazioni ultraviolette del sole.
Oggi il mondo emette intorno a 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, per effetto di una domanda di energia in costante aumento. In soli quarant’anni, tra il 1970 e il 2010, sono state rilasciate nell’atmosfera circa 1.090 miliardi di tonnellate di CO2, più di quante ne sono state prodotte nei duecento anni precedenti. Si tratta, per di più, di un processo estremamente concentrato perché la maggior parte dei gas serra viene prodotta da un numero ridotto di nazioni. Si stima che il 10% più ricco della popolazione globale sia responsabile del 50% delle emissioni, mentre la metà più povera non ne produce che un decimo del totale.
L’aumento medio delle temperature, come conseguenza dell’effetto serra esercitato dall’anidride carbonica, ha ricadute drammatiche sulla biosfera del pianeta. Sulla terraferma, il riscaldamento climatico causa la desertificazione dei suoli e la riduzione delle fonti di acqua dolce, le quali danno origine a siccità prolungate che minacciano la fauna e mettono a repentaglio le attività agricole. È, però, sull’idrosfera che il surriscaldamento esercita il suo impatto maggiore: le masse d’acqua, infatti, assorbono il 93% dell’aumento della temperatura e il 40% delle emissioni totali di CO2: la crescita di calore causa lo scioglimento dei ghiacci ai poli terrestri e immette grandi quantità di acqua dolce negli oceani. Ciò ha due effetti: da un lato, causa l’innalzamento del livello delle acque, che arrivano a minacciare le coste. Dal 1880 ad oggi, il livello medio dei mari è cresciuto di circa 21-24 centimetri; un terzo di questo incremento si è verificato nell’ultimo quarto di secolo. Dall’altro lato, la salinità e l’acidità dell’acqua risultano alterata, con grave danno alla fauna marina.
Tutti questi cambiamenti hanno un’influenza decisiva sulla meteorologia del pianeta: l’aumento delle temperature influenza il naturale ciclo di evaporazione e precipitazione dell’acqua, provocando uragani e disastri naturali sempre meno prevedibili. Come già detto in un precedente articolo, i costi in termini economici e di vite umane degli eventi catastrofici indotti dal cambiamento climatici sono enormi.
Per mitigare i danni del riscaldamento globale, è necessario che Sapiens proceda con decisione sulla strada della decarbonizzazione, riducendo drasticamente l’emissione di gas serra nell’atmosfera. Per fare ciò, sono necessari la volontà politica e dei meccanismi di cooperazione per garantire che tutti i paesi svolgano il proprio ruolo. E qui viene il difficile, perché la lotta al riscaldamento globale rappresenta il più classico dei problemi di azione collettiva, in cui la volontà di sviluppo economico, soprattutto nei paesi emergenti, si scontra con la necessità di ridurre le emissioni inquinanti.
Attualmente, solo l’Unione Europea, a partire dalla crisi economica del 2008, ha ridotto sensibilmente le proprie emissioni di CO2 . Le altre nazioni avanzate hanno mantenuto sostanzialmente inalterati i loro livelli di inquinamento. Gli Stati Uniti, ad esempio, continuano a rappresentare il secondo paese con più emissioni di anidride carbonica al mondo, e il primo in assoluto su base pro-capite. Con l’inizio del nuovo millennio sono stati però i paesi emergenti a contribuire maggiormente al peggioramento dell’effetto serra: negli ultimi trent’anni, la Cina ha quintuplicato le proprie emissioni, arrivando, lo scorso anno, a produrre oltre 10 miliardi di tonnellate di CO2, di gran lunga il paese più inquinante al mondo. Anche l’India, nello stesso lasso di tempo, ha triplicato le proprie emissioni e il continente Asiatico, nel suo complesso, è responsabile oggi di circa il 54% della CO2.
La storia degli accordi internazionali per il contrasto al cambiamento climatico ha ormai una tradizione pluridecennale, e, in alcuni casi, si tratta di una storia di successi: il Protocollo di Montréal, entrato in vigore nel 1989, ha portato ad una riduzione sostanziale di alcune delle sostanze dannose per la fascia dell’ozono. L’Accordo di Parigi, che rappresenta oggi il quadro di riferimento internazionale per la riduzione dei gas serra, sta invece riscuotendo minori consensi. Il patto, sottoscritto nel 2015, ha come obiettivo di lungo periodo quello di mantenere l’aumento della temperatura media del globo al di sotto dei 2° rispetto ai livelli pre-industriali. Per ottenere questo risultato, i climatologi hanno stimato un budget massimo di emissioni di CO2 che l’umanità può ancora immettere nell’atmosfera – tra i 600 e gli 800 miliardi di tonnellate circa di anidride carbonica – prima che l’aumento della temperatura cresca oltre i limiti stabiliti.
In questo quadro, prima si dà inizio al processo di decarbonizzazione, maggiore sarà il tempo a disposizione per ristrutturare il nostro sistema produttivo, così da poter agire in maniera graduale. Se si cominciassero a ridurre, già da quest’anno, le emissioni globali di CO2, la comunità internazionale avrebbe tempo sino al 2040 per raggiungere la carbon neutrality, così da non sforare il budget. All’opposto, più tempo si attenderà prima di dare inizio alla transizione energetica verso fonti rinnovabili, e più brusco sarà l’urto della trasformazione sul nostro sistema economico. Se dovessimo attendere fino al 2025 per dare inizio alla riduzione della CO2, potremmo poi essere costretti a sospendere la maggior parte delle attività produttive per azzerare le emissioni entro il 2035: inchiodare una macchina produttiva lanciata ovviamente non sarebbe una buona idea. Agire con rapidità è quindi essenziale: se la soglia di emissioni stabilita dal budget energetico dovesse essere superata, i cambiamenti climatici e ambientali indotti dal riscaldamento globale diventerebbero irreversibili. La termodinamica opera lentamente, e il clima è un sistema fortemente inerziale: anche qualora dovessimo rispettare i parametri dell’accordo di Parigi, riducendo il nostro inquinamento, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera impiegherà del tempo per stabilizzarsi e le temperature continueranno a salire per decenni, con tutti gli effetti negativi che questo comporta. Siamo già in ritardo: se non dovessimo rispettare i dettami dell’accordo di Parigi, impiegando decenni prima di ridurre le emissioni, l’espansione termica dei mari e il loro innalzamento potrebbero continuare per millenni. Arrivati a quel punto, anche la distopia del film Waterworld di Kevin Costner potrebbe non essere così distante dalla realtà.
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L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DELL’ARIA
Negli ultimi secoli della sua storia, Sapiens ha sviluppato un modello energetico che gli ha consentito di sfruttare le risorse naturali in maniera sempre più efficiente. Abbiamo visto però come questo abbia portato ad alterazioni profonde del suo ambiente circostante. Le emissioni gassose e le altre sostanze di scarto generate dall’attività umana hanno modificato la composizione dell’atmosfera del pianeta, mettendoci di fronte a quattro sfide: il riscaldamento climatico, la riduzione dell’ozono nella stratosfera, il peggioramento della qualità dell’aria e l’introduzione nell’atmosfera delle cosiddette Persistent Bioaccumulating Toxic Substances, agenti chimici che perdurano nell’ambiente e possono accumularsi nei tessuti organici, risultando dannosi per gli esseri viventi. Le cause di questi quattro fenomeni, cosi come il loro impatto sull’atmosfera, sull’ecosistema e sulla salute dell’uomo, sono profondamente connessi gli uni agli altri.
Nei precedenti articoli abbiamo visto come la società industriale produca ogni anno circa 40 miliardi di tonnellate di CO2 e altri gas serra che contribuiscono al riscaldamento climatico. Il solo consumo dei combustibili fossili è all’origine di circa tre quarti delle emissioni totali di anidride carbonica, attraverso le attività manifatturiere, i consumi energetici privati e i trasporti, dalle auto (8%) al trasporto aereo (2%). L’utilizzo di fonti di energia non rinnovabili e le connesse attività umane causano, però, l’emissione di molte altre sostanze, come gli ossidi dello zolfo e dell’azoto, l’ammoniaca, il nitrato, le polveri sottili e altri composti organici volatili, che insieme costituiscono il micro particolato PM2,5, (particolato di diametro intorno a 2,5 milionesi di metro) un agente inquinante generico che si concentra nelle aree urbanizzate e industriali, con gravi conseguenze epidemiologiche. Il consumo di combustibili fossili è all’origine del 90% delle emissioni di questo aerosol atmosferico.
Nei centri urbani sono molti i fattori che contribuiscono all’inquinamento dell’aria: il traffico, ad esempio, è responsabile non soltanto di una quota sostanziosa di anidride carbonica, ma anche di una parte maggioritaria delle emissioni degli ossidi di azoto e, in misura minore, di PM2,5, per effetto del consumo di pneumatici, cuscinetti dei freni e asfalto. Gli avanzamenti tecnologici nel design dei veicoli provano a mitigare questi impatti inquinanti, ma l’esistenza di un florido mercato dell’auto di seconda mano ne rallenta l’introduzione. Anche dal punto di vista residenziale, le grandi quantità di energia richieste nei paesi ricchi per il riscaldamento, l’aria condizionata e l’illuminazione causano un inquinamento dell’aria mentre nei paesi più poveri, dove manca l’accesso a forme di energia pulita, tre miliardi di persone utilizzano legna, kerosene e materiali di scarto come combustibile domestico, con effetti letali per l’aria degli ambienti interni.
I problemi legati all’inquinamento cittadino sono poi strettamente connessi al ciclo dei rifiuti: secondo l’ultimo Global Waste Management Outlook del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, 2 miliardi di persone non hanno alcun accesso a servizi di raccolta di rifiuti solidi e, più in generale, 3 miliardi di individui non possono contare su strutture adeguate per lo smaltimento dell’immondizia. La combustione all’aperto dei rifiuti, dettata dalla necessità, diventa così una fonte di ossido di carbonio e metano, ma anche di particolato fine e inquinanti micro-organici che appestano l’aria delle città: 64 milioni di persone vengono direttamente colpite ogni anno dall’abbandono e dall’incendio incontrollato dei rifiuti nelle più grandi 50 discariche del mondo, di cui 42 sono a meno di 2 km di distanza dagli insediamenti umani.
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Al di fuori dal perimetro delle città, anche l’agricoltura e la silvicoltura contribuiscono all’inquinamento dell’aria. La coltivazione intensiva nei paesi avanzati conta per il 10% alle emissioni di gas serra – percentuale che aumenta notevolmente nei paesi in via sviluppo – oltre a immettere nell’aria altre sostanze: i fertilizzanti chimici, ad esempio, sono responsabili di più del 60% delle emissioni globali di ammoniaca. Sempre più suolo viene consumato dalle attività umane mentre la deforestazione e l’irrigazione massiccia alterano il ciclo dell’azoto e la composizione dell’atmosfera.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 91,3 % della popolazione mondiale vive in luoghi dove i livelli di inquinamento superano le linee guida stabilite sulla qualità dell’aria con effetti epidemiologici devastanti sulla salute di Sapiens. L’esposizione prolungata ad una concentrazione di PM 2,5 superiore a dieci microgrammi per metro cubo di aria è causa di patologie cardiache, infarti, tumori e malattie croniche dei polmoni, oltre che di infezioni respiratorie.
Nel solo 2016, il particolato PM 2,5 ha causato la morte di 4,2 milioni di persone ed è stato responsabile della perdita di un numero compreso tra i 95 e i 118 milioni di disability-adjusted life-years o DALY, una misura del numero di anni di vita sana potenziale che una persona perde a causa di morte prematura e/o cattivo stato di salute. L’esposizione al particolato è oggi la sesta causa di perdita di anni di vita potenziale a livello globale dopo l’alta pressione sanguigna, il fumo, le nascite sottopeso e le malattie connesse all’alimentazione, come diabete e obesità.
Alcune aree del mondo sono più esposte di altre all’inquinamento atmosferico, i cui effetti sulla salute dell’uomo ricalcano la mappa globale delle disuguaglianze: nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale, la concentrazione media di particolato supera i 35 microgrammi per metro cubo, mentre nei paesi avanzati come Europa occidentale e Stati Uniti si attesta ben al di sotto dei 15 microgrammi. Non sorprende, quindi, che anche i tassi di mortalità dovuti all’inalazione del PM2,5 siano fortemente influenzati dalla geografia del pianeta: in Africa e in Asia, il particolato causa più di cento morti ogni centomila abitanti all’anno mentre nei paesi avanzati si contano meno di 40 decessi ogni centomila abitanti.
La stessa misura degli anni di vita sana perduti ogni anno è fortemente correlata con l’indice di sviluppo umano dei singoli paesi: nelle nazioni più povere vengono perduti quasi 650 DALY ogni mille abitanti per problemi dovuti alla mancanza d’acqua e di cibo, ma anche all’inquinamento ambientale e, in particolar modo atmosferico. Nei paesi a più alto indice di sviluppo, invece, i DALY perduti annualmente oscillano tra i 100 e i 200 ogni mille abitanti, e sono quasi interamente dovuti agli effetti collaterali dell’opulenza, dalla sovralimentazione allo smog alimentato da una crescente urbanizzazione.
Sotto questo aspetto, i diversi effetti epidemiologici dell’inquinamento atmosferico sui paesi avanzati e su quelli più poveri non rappresentano che i due lati della stessa medaglia: ogni anno, l’aria inquinata causa tra i 6 e i 7 milioni di vittime; la metà circa di queste morti, tra i 2,6 e i 3,8 milioni, è dovuta all’inquinamento degli ambienti interni causato, nei paesi in via di sviluppo, dall’utilizzo di combustibili tossici e di bassa qualità. Nell’Africa subsahariana e, soprattutto, nell’Asia meridionale, l’inquinamento domestico è responsabile di una percentuale tra il 2% e l’8% degli anni di vita sana potenziale che vengono persi ogni anno. La situazione è ribaltata quando guardiamo ai paesi industrializzati, in cui l’inquinamento degli ambienti interni ha un impatto relativamente trascurabile e dove pesa invece lo smog esterno delle grandi città e agglomerati produttivi, responsabile di quasi 3,5 milioni morti. In un paese come la Cina, il particolato urbano è responsabile del 2% degli anni di vita sana potenziale che vengono persi ogni anno.
In modi diversi, l’inquinamento dell’aria impatta tanto sulle nazioni sviluppate quanto su quelle in via sviluppo, e i costi per la salute di Sapiens sono molto elevati: La perdita di benessere globale dovuta agli effetti epidemiologici della contaminazione dell’aria ammonta a 5.100 miliardi di dollari, pari a circa il 6,6% del PIL mondiale. Rivedere il nostro modello di consumi energetici è quindi imperativo non solamente per contenere l’aumento delle temperature e il cambiamento climatico, ma anche per migliorare la qualità dell’aria che respiriamo, allungando la nostra longevità e la sostenibilità del nostro ecosistema.
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CHI E’ ROBERTO CINGOLANI
Roberto Cingolani
Nato a Milano il 23 dicembre 1961, ha conseguito la laurea in Fisica presso l’Università di Bari e nel 1989 il Diploma di Perfezionamento (PhD) in Fisica alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
E’ stato ricercatore al Max Planck Institut di Stoccarda (Germania), Visiting Professor all’Institute of Industrial Sciences della Tokyo University (Giappone) e alla Virginia Commonwealth University (USA).
Nel 2000 è nominato Professore Ordinario di Fisica Sperimentale all’Università di Lecce. Nel 2001 fonda e dirige il National Nanotechnology Laboratory (NNL) dell’INFM a Lecce.
Nel 2005 ha fondato l’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova di cui è stato Direttore Scientifico.
Nel 2019 viene nominato Chief Technology & Innovation Officer di Leonardo.
Insignito dei titoli di Alfiere del Lavoro nel 1981 e di Commendatore della Repubblica Italiana nel 2006. È autore o co-autore di oltre 1.100 pubblicazioni su riviste internazionali e ha al suo attivo oltre 100 brevetti.
Dal 13 febbraio 2021 è il ministro della Transizione Ecologica nel Governo Draghi.